lunedì 22 dicembre 2008

I Moti del '48 in Italia

La rivoluzione del '48 in Italia ebbe, nella sua fase iniziale, uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei. Già all'inizio dell'anno, tutti gli Stati italiani apparivano percorsi da un generale fermento. Primo e fondamentale obbiettivo comune a tutte le correnti politiche era la concessione di costituzioni fondate sul sistema rappresentativo.
Fu la sollevazione di Palermo del 12 gennaio 1848 a determinare il primo successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di Borbone-il piú retrogrado di tutti i regnanti della penisola-ad annunciare il 29 gennaio la concessione di una costituzione nel Regno delle Due Sicilie.
Spinti dalla pressione dell'opinione pubblica e dalle continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo stesso Pio IX si decisero a concedere la costituzione. Le costituzioni del '48 avevano tutte un carattere fortemente moderato. La piú importante di tutte, lo Statuto che fu promesso da Carlo Alberto l'8 febbraio e che sarebbe poi diventato la legge fondamentale del Regno d'Italia, prevedeva una Camera dei deputati, un Senato di nomina regia e una stretta dipendenza del governo dal sovrano. Ma lo scoppio della rivoluzione in Francia e nell'Impero asburgico giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo spazio all'iniziativa dei democratici e riportando in primo piano la questione nazionale.
Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di Vienna, si sollevarono anche Venezia e Milano. A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici, l'avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell'Arsenale militare cui si unirono numerosi marinai e ufficiali costringeva i reparti austriaci a capitolare. Il 23 un governo provvisorio presieduto da Manin proclamava la costituzione della Repubblica veneta.
A Milano l'insurrezione iniziò il 18 marzo e si protrasse per cinque giorni, le celebri "cinque giornate milanesi". Borghesi e popolani combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco; ma furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso degli scontri. La direzione delle operazioni fu assunta da un "consiglio di guerra" composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell'aristocrazia liberale, inizialmente favorevoli a un compromesso col potere imperiale, finirono per appoggiare la causa degli insorti e diedero vita, il 22 marzo, a un governo provvisorio. Il giorno stesso gli austriaci, preoccupati per l'eventualità di un intervento del Piemonte, decisero di ritirare le truppe ai confini tra Veneto e Lombardia.
Il 23 marzo il Piemonte dichiarava guerra all'Austria. Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto a questa decisione:
La pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi dell'Impero asburgico l'occasione per liberare l'Italia dagli austriaci;
L'aspirazione della monarchia sabauda ad allargare verso est i confini del Regno;
Il timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro di agitazione repubblicana.
L'esempio di un sovrano finì col condizionare la decisione degli altri. Preoccupati dal diffondersi dell'agitazione democratica che minacciava la stabilità dei loro troni, Ferdinando II, Leopoldo II e Pio IX decisero di unirsi alla guerra antiaustriaca. La guerra piemontese sembrava così trasformarsi in una guerra d'indipendenza nazionale e federale, benedetta dal Papa e combattuta col concorso di tutte le forze patriottiche.
Ma l'illusione durò poco. Carlo Alberto dimostrò scarsa risolutezza nel condurre le operazioni militari. Pio IX, che si trovava in una posizione imbarazzante, annunciò il ritiro delle truppe il 29 aprile. Lo imitava, pochi giorni dopo, il granduca di Toscana. A metà maggio era Ferdinando di Borbone, che nel frattempo aveva sciolto il Parlamento appena eletto, a richiamare il suo esercito.
Rimasero a combattere contro l'Austria molti fra i componenti dei corpi di spedizione regolari, protagonisti, in Maggio, di un glorioso fatto d'armi a Curtatone e Montanara. Accorse dal Sud America Giuseppe Garibaldi, che si mise a disposizione del governo provvisorio lombardo. Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi, l'iniziativa tornò nelle mani dell'Impero asburgico. Il 23-25 luglio, nella prima grande battaglia campale, che si combattè a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il Ticino. Il 9 agosto fu firmato l'armistizio con gli austriaci.
Dopo la sconfitta del Piemonte, a combattere contro l'Impero asburgico rimasero solo i democratici italiani e gli ungheresi. In Italia i patrioti democratici dovettero combattere una serie di battagli locali (a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia) senza riuscire a coordinare i diversi fronti e senza poter dare alla loro lotta una dimensione autenticamente popolare. Il loro ideale di una guerra di popolo che unisse la prospettiva della liberazione nazionale a quella dell'emancipazione politica e del rinnovamento sociale contrastava con la ristrettezza della base su cui effettivamente poteva contare: la piccola e media borghesia urbana (soprattutto quella intellettuale), il "popolo minuto" e i ceti artigiani delle città. Le masse contadine, ossia la stragrande maggioranza della popolazione italiana, rimasero invece estranee, quando non apertamente ostili, alle loro battagli.
Tuttavia, nell'autunno del '48, la situazione in Italia era ancora abbastanza fluida. La Sicilia rimaneva sotto il controllo dei separatisti, che si erano dati un proprio governo e una propria costituzione democratica. A Venezia, rimasta in mano degli insorti anche dopo la sconfitta degli insorti a Custoza, Manin aveva nuovamente proclamato la repubblica. In Toscana, alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla pressione popolare a formare un ministero democratico, cappeggiato da Giuseppe Montanelli e da Francesco Domenico Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi. A Roma, in novembre, l'uccisione in un attentato del primo ministro pontificio, il liberal-moderato Pellegrino Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la città e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando di Borbone. Nella capitale, rimasta senza governo, presero il sopravvento i gruppi democratici.
Ben presto l’ondata insurrezionale si placò e tra le stesse forze sociali che ne erano state protagoniste insorsero perplessità e divisioni: si formò un’ala moderata, ovunque intimidita dalle agitazioni operaie che si stavano verificando, che finì per appoggiare le forze della reazione. La svolta partì dall’impero austriaco, dove l’imperatore abdicò in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Nella primavera del 1849 il nuovo imperatore cominciò a contrastare le richieste dei liberali, incarcerando gli uomini che si erano battuti per la Costituzione e sciogliendo il Parlamento tedesco.
Solo in Italia i moti rivoluzionari ripresero nuovo slancio tra la fine del 1848 e l’estate del 1849: in Toscana si formò un governo popolare; a Venezia e a Roma fu proclamata la repubblica (vedi Repubblica di San Marco; Repubblica Romana). Ma il quadro europeo non favoriva il successo dei democratici, tanto più che la seconda sconfitta subita dall’esercito sardo a opera degli austriaci (battaglia di Novara, 1849) apriva la strada alla restaurazione. A Roma, in luglio, dopo l’attacco delle truppe francesi inviate da Luigi Napoleone (il futuro Napoleone III) su richiesta di papa Pio IX, i volontari repubblicani comandati da Giuseppe Garibaldi si arresero. A Venezia, assediata dagli austriaci, il capo dell’insurrezione, Daniele Manin, accettò la capitolazione il 24 agosto 1849.

Fernando Merolle

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