martedì 23 dicembre 2008

La Grande Guerra degli Italiani… Un’unificazione completata?

Il 24 Maggio 1915 cominciava la prima grande esperienza di massa degli Italiani. Si creò una profonda frattura psicologica fra chi aveva combattuto personalmente la guerra e chi non l’aveva fatta, che generò risentimento da parte dei combattenti (REDUCISMO) nei confronti del resto del paese.
L’Italia liberale che era riuscita a portare l’Italia nel conflitto, era ormai finita e proprio la guerra ne aveva segnato la fine. La modernizzazione della società italiana, benché accelerata dalla guerra, rimase largamente incompiuta e non fu sufficiente la guerra a completare l’Unità nazionale.
Circolò abbondantemente l’idea della Guerra come completamento del Risorgimento. Si trattava di un completamento territoriale attraverso la riconquista dei cosiddetti TERRITORI IRREDENTI (le terre occupate dagli Austriaci). Ma in realtà, dietro questa motivazione di facciata si nascondevano anche importanti acquisizioni territoriali, promesse dall’Intesa nei Patti segreti di Londra con il Governo Italiano.
All’inseguimento del mito della riunificazione nazionale furono mandati milioni di contadini al macello, sul fronte, al confine con l’Impero Asburgico.
L’esercito direttamente impegnato nelle operazioni di guerra, nell’arco di tutto il conflitto, comprese circa 4.250.000 uomini, ed è facile intuire che fosse composto in maggioranza da contadini, in prevalenza mandati nella fanteria (il corpo colpito dal maggior numero di perdite).
Gli ufficiali, per lo più appartenenti ai ceti medi, furono l’ossatura dell’esercito e funsero da raccordo tra gli alti comandi e la massa dei combattenti. Per molti di questi, abituati alla vita urbana e borghese, il contatto con i fanti contadini fu una vera e propria scoperta, così come per molti ufficiali del Nord il contatto con i fanti provenienti dal Mezzogiorno. Tra gli ufficiali e i soldati si stabilirono non di rado rapporti di fratellanza e di simpatia umana, miste a deferenza da parte dei fanti. La vita di trincea giocava come un fattore di rimescolamento e di amalgama straordinario. Furono però la spaventosa durezza del sacrificio e i compiti repressivi affidati agli ufficiali e l’applicazione ad essi richiesta di una disciplina ferrea e coercitiva a trasformare non di rado la fratellanza in odio reciproco.
Il grado di identificazione nazionale delle classi popolari italiane restava sempre e comunque molto basso, anche alla vigilia del conflitto. All’inizio del ‘900 il peso di un gran numero di dialetti era ancora preponderante e l’italiano rimaneva una lingua che si imparava a scuola. L’evasione scolastica, come l’analfabetismo, si concentrava in gran misura nelle campagne e nella popolazione femminile. È da escludere che i ceti popolari e i contadini avessero potuto farsi un’idea meno che vaga di cosa fossero la patria e l’Italia. L’allegoria della “donna Turrita”, che avrebbe dovuto incarnare l’idea di Italia, non aveva avuto una grande circolazione nei monumenti e nelle raffigurazioni pittoriche. Le operazioni di pedagogia politica volte alla divulgazione della religione della patria non erano andate oltre la cerchia delle città più importanti. L’immagine geografico simbolica dello stivale era forse più nota. L’Italia rimaneva, alla vigilia dell’entrata in guerra, un paese in cui un a parte considerevole della popolazione era ancorata ad una vita essenzialmente municipale. La cultura contadina aveva buoni motivi per essere diffidente nei confronti del mondo urbano e delle istituzioni statali, delle quali aveva sempre subito la supremazia, l’estorsione di averi (con il Fisco) e l’imposizione di obblighi (tra i quali il servizio militare). Per i più la preoccupazione prevalente divenne quella di “salvare la pelle”.
Prima del 1917 (disfatta a Caporetto) la propaganda nei confronti dei soldati era stata scarsa e piuttosto maldestra. Fu istituito un apposito Ufficio Propaganda, le cui attività principali consistettero nella formulazione di schemi di conversazione che traducevano in forme semplici e convincenti, vicine alla sensibilità dei fanti, le motivazioni della guerra patriottica, e nella promozione di un gran numero di giornali di intrattenimento, divulgazione e propaganda da far circolare tra i soldati. Gli studiosi di linguistica hanno indicato nella grande guerra un punto fondamentale di svolta nell’uso dell’italiano. Numerosi furono i fanti che impararono a scrivere durante il conflitto. Era una spiccata esigenza di comunicare a casa notizie di sé, che spinse molti fanti a prendere in mano la penna e scrivere, oltre ad una forte esigenza autobiografica che li spingeva a raccontare l’immanità dell’evento che stavano vivendo.
Nel corso della mobilitazione si verificò poi un contatto territoriale con il Paese e con la varietà della sue realtà geografiche, produttive e sociali prima mancante. Le nozioni di patria e Italia restano però più che mai sfocate. È difficile dire con esattezza se al termine della Guerra i combattenti si sentissero più italiani di quando questa era iniziata. La morte aveva in un certo senso, riavvicinato gli Italiani alla nazione e all’idea di patria. La lezione era stata dura e aveva lasciato il segno.
Il 4 Novembre 1918 cessarono i combattimenti e l’Italia risultò nel novero dei vincitori, nonostante non fosse riuscita a far valere tutti i propri diritti sulle promesse fatte dall’Intesa con i Patti di Londra. L’Italia usciva accresciuta e finalmente territorialmente riunificata sotto il tricolore sabaudo. Ma gli Italiani erano effettivamente diventati più Italiani? La questione è ancora aperta.

Enrico Talassi

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