martedì 23 dicembre 2008

La Grande Guerra degli Italiani… Un’unificazione completata?

Il 24 Maggio 1915 cominciava la prima grande esperienza di massa degli Italiani. Si creò una profonda frattura psicologica fra chi aveva combattuto personalmente la guerra e chi non l’aveva fatta, che generò risentimento da parte dei combattenti (REDUCISMO) nei confronti del resto del paese.
L’Italia liberale che era riuscita a portare l’Italia nel conflitto, era ormai finita e proprio la guerra ne aveva segnato la fine. La modernizzazione della società italiana, benché accelerata dalla guerra, rimase largamente incompiuta e non fu sufficiente la guerra a completare l’Unità nazionale.
Circolò abbondantemente l’idea della Guerra come completamento del Risorgimento. Si trattava di un completamento territoriale attraverso la riconquista dei cosiddetti TERRITORI IRREDENTI (le terre occupate dagli Austriaci). Ma in realtà, dietro questa motivazione di facciata si nascondevano anche importanti acquisizioni territoriali, promesse dall’Intesa nei Patti segreti di Londra con il Governo Italiano.
All’inseguimento del mito della riunificazione nazionale furono mandati milioni di contadini al macello, sul fronte, al confine con l’Impero Asburgico.
L’esercito direttamente impegnato nelle operazioni di guerra, nell’arco di tutto il conflitto, comprese circa 4.250.000 uomini, ed è facile intuire che fosse composto in maggioranza da contadini, in prevalenza mandati nella fanteria (il corpo colpito dal maggior numero di perdite).
Gli ufficiali, per lo più appartenenti ai ceti medi, furono l’ossatura dell’esercito e funsero da raccordo tra gli alti comandi e la massa dei combattenti. Per molti di questi, abituati alla vita urbana e borghese, il contatto con i fanti contadini fu una vera e propria scoperta, così come per molti ufficiali del Nord il contatto con i fanti provenienti dal Mezzogiorno. Tra gli ufficiali e i soldati si stabilirono non di rado rapporti di fratellanza e di simpatia umana, miste a deferenza da parte dei fanti. La vita di trincea giocava come un fattore di rimescolamento e di amalgama straordinario. Furono però la spaventosa durezza del sacrificio e i compiti repressivi affidati agli ufficiali e l’applicazione ad essi richiesta di una disciplina ferrea e coercitiva a trasformare non di rado la fratellanza in odio reciproco.
Il grado di identificazione nazionale delle classi popolari italiane restava sempre e comunque molto basso, anche alla vigilia del conflitto. All’inizio del ‘900 il peso di un gran numero di dialetti era ancora preponderante e l’italiano rimaneva una lingua che si imparava a scuola. L’evasione scolastica, come l’analfabetismo, si concentrava in gran misura nelle campagne e nella popolazione femminile. È da escludere che i ceti popolari e i contadini avessero potuto farsi un’idea meno che vaga di cosa fossero la patria e l’Italia. L’allegoria della “donna Turrita”, che avrebbe dovuto incarnare l’idea di Italia, non aveva avuto una grande circolazione nei monumenti e nelle raffigurazioni pittoriche. Le operazioni di pedagogia politica volte alla divulgazione della religione della patria non erano andate oltre la cerchia delle città più importanti. L’immagine geografico simbolica dello stivale era forse più nota. L’Italia rimaneva, alla vigilia dell’entrata in guerra, un paese in cui un a parte considerevole della popolazione era ancorata ad una vita essenzialmente municipale. La cultura contadina aveva buoni motivi per essere diffidente nei confronti del mondo urbano e delle istituzioni statali, delle quali aveva sempre subito la supremazia, l’estorsione di averi (con il Fisco) e l’imposizione di obblighi (tra i quali il servizio militare). Per i più la preoccupazione prevalente divenne quella di “salvare la pelle”.
Prima del 1917 (disfatta a Caporetto) la propaganda nei confronti dei soldati era stata scarsa e piuttosto maldestra. Fu istituito un apposito Ufficio Propaganda, le cui attività principali consistettero nella formulazione di schemi di conversazione che traducevano in forme semplici e convincenti, vicine alla sensibilità dei fanti, le motivazioni della guerra patriottica, e nella promozione di un gran numero di giornali di intrattenimento, divulgazione e propaganda da far circolare tra i soldati. Gli studiosi di linguistica hanno indicato nella grande guerra un punto fondamentale di svolta nell’uso dell’italiano. Numerosi furono i fanti che impararono a scrivere durante il conflitto. Era una spiccata esigenza di comunicare a casa notizie di sé, che spinse molti fanti a prendere in mano la penna e scrivere, oltre ad una forte esigenza autobiografica che li spingeva a raccontare l’immanità dell’evento che stavano vivendo.
Nel corso della mobilitazione si verificò poi un contatto territoriale con il Paese e con la varietà della sue realtà geografiche, produttive e sociali prima mancante. Le nozioni di patria e Italia restano però più che mai sfocate. È difficile dire con esattezza se al termine della Guerra i combattenti si sentissero più italiani di quando questa era iniziata. La morte aveva in un certo senso, riavvicinato gli Italiani alla nazione e all’idea di patria. La lezione era stata dura e aveva lasciato il segno.
Il 4 Novembre 1918 cessarono i combattimenti e l’Italia risultò nel novero dei vincitori, nonostante non fosse riuscita a far valere tutti i propri diritti sulle promesse fatte dall’Intesa con i Patti di Londra. L’Italia usciva accresciuta e finalmente territorialmente riunificata sotto il tricolore sabaudo. Ma gli Italiani erano effettivamente diventati più Italiani? La questione è ancora aperta.

Enrico Talassi

La Terza Guerra d'Indipendenza e la Presa di Roma

Uno dei principali problemi dell’appena costituito Regno d’Italia derivava dalla questione romana: si trattava sostanzialmente dell'ostruzionismo praticato dal papa Pio IX, che non riconobbe l'esistenza del nuovo Regno e si rifiutò di aprire trattative che avessero come obiettivo l'annessione di Roma al Regno. Mentre il governo sceglieva le vie diplomatiche, mazziniani e garibaldini premevano per una soluzione di forza. La tentò una prima volta Garibaldi, che mosse dalla Calabria con un gruppo di volontari, ma fu fermato dall'esercito piemontese (Aspromonte, 1862). Per aggirare l'ostacolo rappresentato soprattutto dalla Francia, le cui truppe difendevano lo Stato Pontificio, nel 1864 il governo stipulò un accordo: la Francia si impegnava a ritirare entro due anni i soldati, in cambio dell'impegno italiano a non violare militarmente lo Stato Pontificio. Una clausola dell'accordo prevedeva il trasferimento della capitale da Torino a Firenze (1865). Il governo italiano negli anni successivi prese drastici provvedimenti per la riduzione del potere temporale della Chiesa.
Nel 1866 l'Italia partecipò alla guerra austro-prussiana (per noi, la Terza Guerra d’indipendenza), alleandosi con la Prussia. Lo scopo era quello di trarre vantaggio dalla competizione per la supremazia in Germania, dove parimenti era in atto un processo di unificazione nazionale. Fu il cancelliere prussiano Bismarck a offrire al governo italiano un'alleanza militare, in modo da tenere impegnata sul versante sud una parte dell'esercito austriaco e lasciare sguarnito il fronte tedesco. Prussia e Regno d’Italia sottoscrissero quindi un patto segreto (8 aprile 1866), con il quale l'Italia si impegnava a entrare in guerra contro l'Austria non appena la Prussia avesse aperto le ostilità: il vantaggio sarebbe consistito nell'acquisizione del Veneto e di altri territori di nazionalità italiana sotto dominio austriaco.
La guerra iniziò il 20 giugno. Il re Vittorio Emanuele II assunse il comando dell'esercito, mentre a capo dello stato maggiore fu posto il generale La Marmora, appena dimessosi dalla carica di presidente del Consiglio. Le operazioni militari furono condotte senza coordinamento tra i due tronconi dell'esercito che operavano l'uno sul Mincio, al comando di La Marmora, l'altro sul basso Po, agli ordini del generale Cialdini. Nonostante l'inferiorità numerica (70.000 uomini contro 200.000) l'esercito austriaco riuscì a sorprendere alcune divisioni italiane nei pressi di Custoza, ingaggiando uno scontro imprevisto che, seppure di modeste proporzioni, allarmò a tal punto il generale La Marmora da convincerlo a ordinare una ritirata generale, oltre le linee del Mincio e dell'Oglio.
Discordanze di strategia tra i comandi e rivalità tra La Marmora e Cialdini sulla conduzione delle operazioni impedirono di organizzare una controffensiva nel momento in cui gli austriaci ritiravano numerose divisioni per spostarle sul fronte prussiano e una colonna guidata da Garibaldi, dopo la vittoriosa battaglia di Bezzecca (21 giugno), marciava su Trento.
Il 20 luglio nei pressi dell'isola di Lissa (Dalmazia) la flotta italiana subì una clamorosa sconfitta da parte degli austriaci, che si concluse con l'affondamento della cannoniera Palestro (231 caduti) e della nave ammiraglia Re d'Italia (318 morti).
All'esito negativo della guerra fu posto rimedio grazie alla vittoria dei prussiani, che sbaragliarono gli austriaci nella battaglia di Sadowa (vedi Guerra austro-prussiana), a cui seguì la pace di Praga (23 agosto). L'armistizio tra Austria e Italia, sottoscritto a Cormons (12 agosto), fu seguito dalla pace di Vienna (3 ottobre) che prevedeva la clausola, già sancita a Praga, della cessione all'Italia del Veneto previa consegna a Napoleone III: l'imperatore francese in tal modo ripristinava il suo ruolo di garante del regno italiano.
Per quanto riguarda la questione romana, l’occasione per la presa di Roma si presentò nel settembre del 1870. Infatti, dopo la sconfitta francese a Sedan a opera dei prussiani, Papa Pio IX non poté più contare sulla difesa del suo territorio che Napoleone III e la Francia gli avevano fin lì garantito. Il 20 settembre 1870 l'artiglieria dell'esercito italiano aprì una breccia nelle mura di Roma, presso Porta Pia, consentendo a due battaglioni, uno di fanteria, l'altro di bersaglieri, comandati dal generale Raffaele Cadorna, di occupare la città. L'evento sancì la fine del potere temporale della Chiesa e il trasferimento della capitale del Regno d’Italia a Roma.








A. Salvi – L. Piamonte

lunedì 22 dicembre 2008

La Seconda Guerra d'Indipendenza e la Spedizione dei Mille

Al termine del biennio rivoluzionario le truppe austriache garantirono il ripristino delle dinastie regnanti prima del 1848. Solo nel Regno di Sardegna non fu restaurato il regime assolutistico, perché il nuovo sovrano, Vittorio Emanuele II, mantenne lo Statuto concesso da Carlo Alberto. Su questa piattaforma liberale e costituzionalista fu possibile adottare una linea politica che rilanciava la questione nazionale, a cui il primo ministro (dal 1854) Camillo Benso conte di Cavour, diede una dimensione praticabile imperniata sul consenso internazionale, assicurandosi il favore della Francia e della Gran Bretagna al progetto di unificazione italiana controllato dal re di Sardegna.
Nella prospettiva di rafforzare il fronte antiaustriaco, Cavour con gli accordi di Plombières del 1858 strinse un'alleanza con l'imperatore francese Napoleone III, il quale si impegnò a combattere a fianco dell'esercito piemontese, ma solo in caso di aggressione austriaca e in cambio della cessione di Nizza e della Savoia. Il progetto prevedeva una sistemazione dell'Italia in quattro stati (il Regno sardo, il Ducato di Parma con la Toscana, lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie), funzionale a impedire la nascita di una nuova grande potenza territoriale e a garantire al papa e alla Francia il ruolo di garanti dei nuovi equilibri. Un'intensa azione diplomatica svolta dalla Gran Bretagna tentò di scongiurare il conflitto tra Austria e Francia, nel timore che questo potesse innescare una guerra di dimensioni ben più ampie. All'opera di pacificazione svolta dagli inglesi si aggiunse l'iniziativa della Russia che tendeva a cercare di risolvere la questione italiana in un congresso europeo, ma le difficoltà insorte principalmente per l'opposizione di Cavour e del papa fecero tramontare la proposta.
Cavour infatti non accettò il veto posto dall'Austria alla presenza del Regno di Sardegna all'ipotizzato congresso, mentre il papa Pio IX osteggiò un'interferenza da parte delle potenze straniere negli affari interni del suo stato. Anche la proposta di un disarmo generale in Italia non ebbe seguito, questa volta per l'opposizione dell'Austria, che il 23 aprile 1859 lanciò un ultimatum al Piemonte, con il quale si intimava il disarmo immediato, pena la guerra. Cavour trasse pretesto dall'ultimatum austriaco per intensificare i preparativi militari, ai quali erano partecipi anche truppe di volontari agli ordini di Garibaldi, i Cacciatori delle Alpi.
La risposta negativa data da Cavour all'ultimatum (26 aprile 1859) determinò lo scoppio della guerra (detta Seconda Guerra d’Indipendenza), dichiarata dall'imperatore Francesco Giuseppe il 28 aprile e iniziata con l'improvviso ingresso in Piemonte delle truppe. L'esercito sardo schierò 63.000 soldati, mentre i francesi inviarono un corpo di spedizione di 120.000 uomini, con cannoni e sussistenza, che furono trasferiti rapidamente al fronte e si posizionarono nel Piemonte meridionale (30 aprile). Napoleone III in persona assunse il comando dei due eserciti.
All'avanzata austriaca, che portò alla conquista di Biella e di Vercelli, rispose una manovra su tre fronti, che aveva lo scopo di costringere le truppe imperiali a ripiegare a sud: Garibaldi con i Cacciatori delle Alpi occupò Varese e Como; Napoleone III trasferì il grosso delle truppe a Novara, mentre le forze piemontesi coprivano il centro dello scacchiere occupando Palestro, nei pressi di Pavia (30-31 maggio). La prima grande battaglia fu combattuta il 4 giugno a Magenta: gli austriaci sconfitti ripiegarono verso le fortezze del Quadrilatero, mentre Napoleone III e Vittorio Emanuele II facevano ingresso a Milano (8 giugno) e Garibaldi con i suoi uomini liberava Como, Bergamo e Brescia.
Francesco Giuseppe, che aveva intanto assunto il comando diretto dell'esercito austriaco, si accinse a nuovi scontri sul campo. Le due ultime sanguinose battaglie si combatterono il 24 giugno: a Solferino i piemontesi e a San Martino i francesi ebbero la meglio sugli austriaci che ripiegarono al di là del Mincio, sulla linea di difesa dell'Adige. Napoleone III giunse a cingere d'assedio Peschiera. Intanto nell'Adriatico una flotta franco-piemontese si avvicinava a Venezia.
La sera del 5 luglio, tuttavia, Napoleone III decise di ritirarsi dal conflitto, preoccupato sia per le perdite subite, sia per le sollevazioni guidate da gruppi liberali e democratici in Toscana, nei Ducati di Parma e Modena e nello Stato Pontificio (che facevano presagire un esito della guerra ben diverso da quello previsto negli accordi di Plombières), sia infine per timore di una discesa in guerra dell'esercito prussiano a fianco dell'Austria. Senza preavvertire Cavour, aprì i negoziati per un armistizio con Francesco Giuseppe. I due imperatori si incontrarono a Villafranca, nel Veronese, tra l'8 e l'11 luglio, accordandosi sui preliminari della pace, firmata a Zurigo il 10 novembre 1859. In base a questi accordi la Lombardia veniva ceduta alla Francia, che successivamente l'avrebbe consegnata al Piemonte; si prevedeva inoltre che si formasse una confederazione di stati italiani presieduta dal papa e che a Parma e in Toscana tornassero i legittimi sovrani. Le ultime due clausole non ebbero seguito, perché le popolazioni emiliane e toscane insorte chiesero l'annessione al Piemonte, che Napoleone finì per accettare in cambio di Nizza e della Savoia.
Il progetto unitario venne poi rilanciato per iniziativa dei democratici. A Palermo, il 4 aprile 1860, era scoppiata un'insurrezione popolare organizzata da patrioti mazziniani, che avrebbe dovuto fornire l'occasione per un'azione armata di ampia dimensione: il suo fallimento non spense le attese. Anzi, vari focolai insurrezionali si diffusero nelle campagne della Sicilia. L'8 aprile Garibaldi accettò quindi l'invito rivoltogli da Francesco Crispi e Nino Bixio di muovere verso l'isola con un gruppo di volontari (Spedizione dei Mille). Il re di Sardegna Vittorio Emanuele II e il primo ministro Cavour rifiutarono di sostenere in alcun modo la spedizione, per timore di turbare il delicato equilibrio internazionale e di provocare interventi stranieri.
Salpati il 6 maggio da Quarto, i Mille sbarcarono a Marsala l’11 maggio, involontariamente protetti da due navi da guerra inglesi che, trovandosi in porto, impedirono alle navi borboniche di aprire il fuoco. Assunta la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, Garibaldi iniziò le operazioni di guerra, che portarono alla vittoria sui borbonici nella battaglia di Calatafimi, alla conquista di Palermo e alla liberazione definitiva dell'isola ottenuta con la vittoria di Milazzo (20 luglio).
Nel mese di giugno Garibaldi emanò un decreto che concedeva ai patrioti siciliani quote di beni demaniali, mentre Cavour inviava un rappresentante del governo in modo da preparare l'annessione della Sicilia al regno sabaudo. Nello stesso mese, nel tentativo estremo di salvare la corona, a Napoli il re Francesco II ripristinò la Costituzione del 1848, decretò l'amnistia per i prigionieri politici e aprì trattative con il Regno di Sardegna.
Le misure liberali adottate dal sovrano non distolsero Garibaldi dal proseguire la spedizione; attraversato lo stretto di Messina, i Mille risalirono la penisola attraverso la Calabria e la Basilicata insorte, fino a entrare trionfalmente a Napoli il 7 settembre. La liberazione di Napoli non significò tuttavia la caduta dello stato borbonico, che avvenne solo dopo la sconfitta dell’esercito di Francesco II nella battaglia del Volturno (1-2 ottobre).
Dopo un plebiscito in favore dell'annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte (a Napoli su 136.000 votanti i contrari furono solo 31), Garibaldi attese l'arrivo di Vittorio Emanuele II. Il 26 ottobre a Teano (o a Vairano, secondo recenti analisi storiche) avvenne lo storico incontro tra il sovrano e il capo dei Mille. Nella memoria risorgimentale quell'incontro assumerà il significato della piena riconciliazione tra la politica sabauda e l'iniziativa popolare; in realtà, i contrasti tra moderati e democratici non si risolsero con quell’incontro, ma erano destinati a caratterizzare la vita politica del Regno d'Italia.
L'impresa dei Mille si poté dire conclusa con l'ingresso del re di Sardegna a Napoli (7 novembre), cui seguì il ritiro di Garibaldi a Caprera (9 novembre).
Il Regno d'Italia fu proclamato il 17 marzo 1861 dal parlamento unitario, eletto nel gennaio dello stesso anno.

Alessandro Salvi

I Moti del '48 in Italia

La rivoluzione del '48 in Italia ebbe, nella sua fase iniziale, uno sviluppo autonomo rispetto agli altri paesi europei. Già all'inizio dell'anno, tutti gli Stati italiani apparivano percorsi da un generale fermento. Primo e fondamentale obbiettivo comune a tutte le correnti politiche era la concessione di costituzioni fondate sul sistema rappresentativo.
Fu la sollevazione di Palermo del 12 gennaio 1848 a determinare il primo successo in questa direzione, inducendo Ferdinando II di Borbone-il piú retrogrado di tutti i regnanti della penisola-ad annunciare il 29 gennaio la concessione di una costituzione nel Regno delle Due Sicilie.
Spinti dalla pressione dell'opinione pubblica e dalle continue dimostrazioni di piazza, prima Carlo Alberto di Savoia, poi Leopoldo II di Toscana, infine lo stesso Pio IX si decisero a concedere la costituzione. Le costituzioni del '48 avevano tutte un carattere fortemente moderato. La piú importante di tutte, lo Statuto che fu promesso da Carlo Alberto l'8 febbraio e che sarebbe poi diventato la legge fondamentale del Regno d'Italia, prevedeva una Camera dei deputati, un Senato di nomina regia e una stretta dipendenza del governo dal sovrano. Ma lo scoppio della rivoluzione in Francia e nell'Impero asburgico giunse a mutare i termini del problema, dando nuovo spazio all'iniziativa dei democratici e riportando in primo piano la questione nazionale.
Nei giorni immediatamente successivi alla rivolta di Vienna, si sollevarono anche Venezia e Milano. A Venezia, il 17 marzo, una grande manifestazione popolare aveva imposto al governatore austriaco la liberazione dei detenuti politici, fra cui era il capo dei democratici, l'avvocato Daniele Manin. Pochi giorni dopo, una rivolta degli operai dell'Arsenale militare cui si unirono numerosi marinai e ufficiali costringeva i reparti austriaci a capitolare. Il 23 un governo provvisorio presieduto da Manin proclamava la costituzione della Repubblica veneta.
A Milano l'insurrezione iniziò il 18 marzo e si protrasse per cinque giorni, le celebri "cinque giornate milanesi". Borghesi e popolani combatterono fianco a fianco sulle barricate contro il contingente austriaco; ma furono soprattutto gli operai e gli artigiani a sostenere il peso degli scontri. La direzione delle operazioni fu assunta da un "consiglio di guerra" composto prevalentemente da democratici e guidato da Carlo Cattaneo. Anche gli esponenti dell'aristocrazia liberale, inizialmente favorevoli a un compromesso col potere imperiale, finirono per appoggiare la causa degli insorti e diedero vita, il 22 marzo, a un governo provvisorio. Il giorno stesso gli austriaci, preoccupati per l'eventualità di un intervento del Piemonte, decisero di ritirare le truppe ai confini tra Veneto e Lombardia.
Il 23 marzo il Piemonte dichiarava guerra all'Austria. Diverse furono le ragioni che spinsero Carlo Alberto a questa decisione:
La pressione congiunta dei liberali e dei democratici, che vedevano nella crisi dell'Impero asburgico l'occasione per liberare l'Italia dagli austriaci;
L'aspirazione della monarchia sabauda ad allargare verso est i confini del Regno;
Il timore che il Lombardo-Veneto diventasse un centro di agitazione repubblicana.
L'esempio di un sovrano finì col condizionare la decisione degli altri. Preoccupati dal diffondersi dell'agitazione democratica che minacciava la stabilità dei loro troni, Ferdinando II, Leopoldo II e Pio IX decisero di unirsi alla guerra antiaustriaca. La guerra piemontese sembrava così trasformarsi in una guerra d'indipendenza nazionale e federale, benedetta dal Papa e combattuta col concorso di tutte le forze patriottiche.
Ma l'illusione durò poco. Carlo Alberto dimostrò scarsa risolutezza nel condurre le operazioni militari. Pio IX, che si trovava in una posizione imbarazzante, annunciò il ritiro delle truppe il 29 aprile. Lo imitava, pochi giorni dopo, il granduca di Toscana. A metà maggio era Ferdinando di Borbone, che nel frattempo aveva sciolto il Parlamento appena eletto, a richiamare il suo esercito.
Rimasero a combattere contro l'Austria molti fra i componenti dei corpi di spedizione regolari, protagonisti, in Maggio, di un glorioso fatto d'armi a Curtatone e Montanara. Accorse dal Sud America Giuseppe Garibaldi, che si mise a disposizione del governo provvisorio lombardo. Dopo alcuni modesti successi iniziali dei piemontesi, l'iniziativa tornò nelle mani dell'Impero asburgico. Il 23-25 luglio, nella prima grande battaglia campale, che si combattè a Custoza, presso Verona, le truppe di Carlo Alberto furono nettamente sconfitte e si ritirarono oltre il Ticino. Il 9 agosto fu firmato l'armistizio con gli austriaci.
Dopo la sconfitta del Piemonte, a combattere contro l'Impero asburgico rimasero solo i democratici italiani e gli ungheresi. In Italia i patrioti democratici dovettero combattere una serie di battagli locali (a Roma e a Venezia, in Toscana e in Sicilia) senza riuscire a coordinare i diversi fronti e senza poter dare alla loro lotta una dimensione autenticamente popolare. Il loro ideale di una guerra di popolo che unisse la prospettiva della liberazione nazionale a quella dell'emancipazione politica e del rinnovamento sociale contrastava con la ristrettezza della base su cui effettivamente poteva contare: la piccola e media borghesia urbana (soprattutto quella intellettuale), il "popolo minuto" e i ceti artigiani delle città. Le masse contadine, ossia la stragrande maggioranza della popolazione italiana, rimasero invece estranee, quando non apertamente ostili, alle loro battagli.
Tuttavia, nell'autunno del '48, la situazione in Italia era ancora abbastanza fluida. La Sicilia rimaneva sotto il controllo dei separatisti, che si erano dati un proprio governo e una propria costituzione democratica. A Venezia, rimasta in mano degli insorti anche dopo la sconfitta degli insorti a Custoza, Manin aveva nuovamente proclamato la repubblica. In Toscana, alla fine di ottobre, il granduca fu costretto dalla pressione popolare a formare un ministero democratico, cappeggiato da Giuseppe Montanelli e da Francesco Domenico Guerrazzi, leader dei repubblicani livornesi. A Roma, in novembre, l'uccisione in un attentato del primo ministro pontificio, il liberal-moderato Pellegrino Rossi, aveva indotto il papa ad abbandonare la città e a rifugiarsi a Gaeta sotto la protezione di Ferdinando di Borbone. Nella capitale, rimasta senza governo, presero il sopravvento i gruppi democratici.
Ben presto l’ondata insurrezionale si placò e tra le stesse forze sociali che ne erano state protagoniste insorsero perplessità e divisioni: si formò un’ala moderata, ovunque intimidita dalle agitazioni operaie che si stavano verificando, che finì per appoggiare le forze della reazione. La svolta partì dall’impero austriaco, dove l’imperatore abdicò in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Nella primavera del 1849 il nuovo imperatore cominciò a contrastare le richieste dei liberali, incarcerando gli uomini che si erano battuti per la Costituzione e sciogliendo il Parlamento tedesco.
Solo in Italia i moti rivoluzionari ripresero nuovo slancio tra la fine del 1848 e l’estate del 1849: in Toscana si formò un governo popolare; a Venezia e a Roma fu proclamata la repubblica (vedi Repubblica di San Marco; Repubblica Romana). Ma il quadro europeo non favoriva il successo dei democratici, tanto più che la seconda sconfitta subita dall’esercito sardo a opera degli austriaci (battaglia di Novara, 1849) apriva la strada alla restaurazione. A Roma, in luglio, dopo l’attacco delle truppe francesi inviate da Luigi Napoleone (il futuro Napoleone III) su richiesta di papa Pio IX, i volontari repubblicani comandati da Giuseppe Garibaldi si arresero. A Venezia, assediata dagli austriaci, il capo dell’insurrezione, Daniele Manin, accettò la capitolazione il 24 agosto 1849.

Fernando Merolle